Eleonora Dusi (Pincherle)

Intervista apparsa nella rubrica: “Armonia, Arte, Sport” sul quotidiano Italia Sera di giovedì 17 gennaio 2013.

L’appartamento è in un complesso condominiale storico di quelli tipici del quartiere Prati a Roma. Con il cortiletto interno curato, le piante e le biciclette con il cestino. In quell’appartamento c’è uno studio d’artista.  Quindi, ricapitolando: una casa fra le case, l’ora di pranzo, gli studi di commercialisti, avvocati e notai, l’ambulatorio di qualche dentista e un pittore. Che mi apre la porta sorridendo e mi fa subito sedere nel suo studio, in quell’angolo, contenuto e discreto, in cui ha il cavalletto e i colori. Uno studio con tutti i crismi. I vasi con i pennelli, i tubetti dei colori e la tavolozza sporca. L’odore di olio e trementina della tela in corso.

Mi incuriosisce, Antonio Anastasia, perché ha iniziato a dipingere appena quindicenne,  agli inizi degli anni ’60 e nel 1968 già esponeva una quarantina di opere nella sua prima personale a Maglie al “Circolo Culturale  Friends Club”: in seguito, per cause di forza maggiore, si è dedicato prevalentemente alla grafica. Quasi esclusivamente per Alitalia, dove era responsabile del progetto ICARUS per la cartografia automatizzata, contribuendo a dare prestigio a livello Europeo alla nostra compagnia di bandiera. Mi fermo, gli dico: questa è la tua opera più importante indicandone una! E lui mi dice che no, non è così. La sua opera più importante è, magari, quella meno in vista. Per esempio “L’amore perduto (a mia moglie)”, che è una sfera gialla fra i colori. Come sono per sua moglie anche quell’astratto felice, “Pensiero d’Amore”, “Primavera a Pallottini” e “ Composizione musicale con fiori tropicali”.

Un ricordo doloroso, che è stata però la spinta a rifugiarsi con energia e passione alla pittura, la sua vera professione, e riprendere con slancio quella ricerca per una nuova tecnica pittorica iniziata sin dagli anni 70. Il suo personalissimo “ Espressionismo Astratto “, un mix fra Astratto, Informale, Dripping e Spaziassimo. Egli cerca di esprimere tutto il suo malessere verso una società che considera malata ,ma la raccontata solo ed esclusivamente attraverso il colore, senza immagini, in piena libertà. A questo è arrivato solo dopo molti anni di ricerca e tele distrutte e un’intuizione rivelatasi vincente dopo una notte insonne.

Mi racconta che durante l’esecuzione di un’opera Astratta, ( che produce solo nella sua casa di campagna per via dello spazio ) si estranea, si isola, nessun contatto. Nel suo laboratorio zeppo di smalti e tele nel silenzio mattutino dipinge, c’è solo lui, tanto spazio per muoversi intorno, i colori e la superfice su cui dar vita ad un pensiero, un’idea attraverso il movimento e l’amalgama degli smalti guidati dalla spatola e dalle sue dita, che danno origine a quegli ammirati effetti cromatici straordinari, impossibili da realizzare col pennello.

C’è molto ordine nel suo studio a Roma come in tutta la “casa galleria”. Le sue opere sono ovunque appese ed accatastate in tutele stanze, ci sono anche quelle eseguite direttamente sul vetro, che rappresentano l’inizio della ricerca astratta e  che sicuramente lo caratterizzano e, più di tutte,  quelle che gli piace chiamare “cubiste/futuriste”: si tratta di tele suddivise geometricamente in cui no, non c’è un reale cubismo. La forma non viene “aperta” sul piano ma viene, piuttosto, segmentata in zone di diversa cromia, con un uso affascinante e pieno, compatto, dei colori primari. Ogni spazio è riempito. Suona gradevole tutta questa faccenda, mentre vedo i suoi lavori cubisti/futuristi finalmente dal vivo.

 

“Perché le nature morte le chiami “Composizione di natura morta” ? O “Composizione musicale e fiori tropicali”, “Composizione con edera”. Perché questo termine “composizione”, gli dico io.

“Perché gli oggetti sono collocati in uno spazio fintamente, decido la scena come un regista e li ritraggo. Sono io a mettere insieme degli strumenti musicali e dei fiori. “Non esisterebbe altrimenti, in natura, questo accostamento”. La linearità di questa logica è spiazzante. Come anche lo sono alcuni anziani dipinti giovanili. Brutalmente semplici, vagamente elementari, ma entusiastici, felici. I tramonti, quelli dei poeti.

“Sì ma” continuo io mentre rimando a un momento successivo il suo gentile  invito a pranzare assieme “quali sono le opere che realmente ti rappresentano. Quali, quelle di cui potresti dire:  “questo sono io” ? ”.

“Queste”, mi dice mentre punta il dito verso un grande pannello in corridoio. È un pannello ampio, di circa tre metri di altezza e centoventi di larghezza. Con i colori che sono i suoi, quelli che lo contraddistinguono. Un certo blu, un certo giallo ocra. Cubista/Futurista, agglomera simboli oggetti e animali da bestiario medievale. E astri, autostrade, aerei. Un computer. Un ventaglio. E il volto della sfinge. Mi spiega, mentre ci passo il tempo strampalata, che al centro ci sono “le cose terrene” e in basso un accenno di vita nel mare, in alto gli astri, le strade del cielo. Che lì si intersecano presente e passato.

“Ecco. È questo, che sono io”.

Come si chiama, gli dico di rimando.

“Immagini di vita in composizione”.

Sorrido. “Anche qui c’è una composizione”.

L’opera che gli ha dato maggiori soddisfazioni nei concorsi di pittura è “Giocatori di Polo”. Gli piace che si tratti di figure in una convulsa somma. I muscoli dei cavalli, le braccia dei giocatori. Ma non c’è, affatto, alcun movimento. C’è, semmai, fluidità e linearità, morbidezza. Un impeto che rasserena. Perché chi guarda una partita di polo non guarda un assalto della cavalleria in battaglia: guarda uno spettacolo divertente su un prato. Altri giocatori di polo della storia, quelli di Renato Birolli del movimento di Corrente, quasi a riposo. E anche Gen Paul, quelli sì convulsi e fagocitanti, divoratori di aria e spazio.

Mi sovviene, guardando Giocatori di Polo, che in Anastasia c’è quasi una infantile voglia di levarsi le briglie, dopo quasi una vita a produrre carte aeronautiche e a fare il grafico. A dipingere per mestiere.

La creatività c’è comunque sempre, in un lavoro come questo, mi dice mostrandomi qualcosa e i lavori che osservo sono pregevoli. Tutti a mano, quando la grafica pubblicitaria era fatta in questo modo. Da artigiani, con tempera e aerografo. Le brochure, i decori, addirittura i francobolli erano disegnati a mano, come quei tre per il concorso del Venticinquennale di Alitalia che tira fuori da una cartellina.

“Vuoi diventare famoso?” gli butto lì, per gioco.

“Non è il mio primario desiderio diventare ricco dipingendo, se è quello che vuoi dire”. Sorride sagace. “Vendere un quadro a volte è qualcosa che mi rattrista, è come se una parte di me andasse via”. Il 90% sono tutti mie figli. Non svenderesti una tua opera, gli chiedo affermativa. Scuote la testa. Poi si fa serio. “Non è per questo che dipingo e questo mercato pazzo non mi interessa. Dipingo perché ne ho un bisogno vitale”. Racconta a bassa voce che le idee gli vengono improvvisamente, dal pensiero di alcuni eventi o dai sogni che corre ad appuntarsi anche di notte. Mi viene in mente che alcuni registi fanno così. Ci diciamo tutto questo mentre sfogliamo i tanti cataloghi e riviste che lo ospitano e frughiamo fra le locandine. La Biennale Internazionale di Roma del 2012, Torino, Colonia, Miami con Art River e, proprio in questi giorni, la Biennale di Palermo.

Di fatto mi trovo con un artista di poliedrico impulso che, come a un artista è dovuto, è alla continua ricerca di nuove sperimentazioni tecniche. Mi stupisce la differenza di stile e tecnica fra le opere su vetro rispetto alle altre. C’è qualcosa di nuvoloso, di cupo, di misterioso in queste chiazze di colore denso. Quello che pare, è che siano impressioni di colore rimaste lì a sedimentare. Qualcosa che abbia trovato un posto su quel vetro e lentamente si sia disidratato. C’è opacità, profondità e spavento. Quelle che vedo dal vivo sono opere di minute dimensioni, al massimo 40×50. Sono abituata a non sorprendermi se un artista diversifica in modo considerevole la propria produzione. In tutti c’è una dualità.

“Tutti abbiamo qualcosa di più segreto”, mi dice lui. “Qualcosa che sia meno vivace dei Giocatori di Polo”. La vita è piena di eventi positivi e negativi, raccontarli tutti è un dovere.

Annuisco.

Eleonora Dusi, curatrice d’Arte (pseudonimo: Pincherle) –  Roma